“GENESIQUATTROUNO” di e con Gaetano Bruno e Francesco Villano
Al Teatro Piccolo Bellini dal 24 al 29 Marzo
Attraverso un viaggio onirico la storia è raccontata a ritroso, partendo dai giochi dell’infanzia, da quella complicità che lega, che crea fiducia, che permette all'uno di “affidarsi” all’altro, di sentirsi sicuri nei luoghi condivisi, costruiti insieme, nascosti al mondo perché propri, parte della vita stessa.
Con uno straordinario uso del corpo gli attori cominciano il percorso dal cerchio stesso, quasi fosse il luogo della grotta segreta dell’infanzia, all’interno del quale creano azioni sceniche che ricordano la libertà del gioco infantile. E ciò prosegue fino a quando gli stessi attori, usciti dal cerchio “protettivo”, lontani da quelle avventure fanciullesche, cominciano a dialogare in un crescendo fatto di complicità che diventa, però, velocemente invidia, in un dialogo sempre più aspro e tagliente, in cui la parola, con le sue insidie, si sostituisce al corpo, alla sua libertà, dando ampio spazio alla violenza, all’inganno.
Il tutto si trasforma quando il padre avvia i figli alla vita da adulti, perché è proprio li che si insinua il germe dell’astio, e dal momento che Caino brama di distruggere quella vita costruita con Abele, quel rapporto di fiducia che troppo spesso tra gli essere umani viene a mancare senza che la ragione possa comprendere fino in fondo.
Quello che era un rapporto d’amore fraterno, diventa diffidenza, angoscia, paura, morte, e le parole si trasformano in lame affilate, che, lentamente, fanno ripiombare Caino all’interno di quel cerchio. Questa volta però è solo, impaurito, in un luogo che da rifugio si trasforma in gabbia, nel quale l’albero che era vita, diventa orrore che avvolge, incubo ricorrente che insegue l’uomo che non riesce ad accettare ciò che ha compiuto.
“Sono forse io il guardiano di mio fratello?” e ciò che ripete Caino, ed è ciò che ripete l’uomo stesso quando si rifiuta di prendersi cure dell’altro, in un mondo dove sempre meno “ci si guarda”, dove troppo spesso siamo soli in quei cerchi che la vita ci costruisce intorno.
servizio di Andrea Fiorillo
Nel racconto della Bibbia Caino e Abele sono i primi due figli nati da Adamo ed Eva dopo la cacciata dal giardino dell'Eden. Caino pratica l'agricoltura e Abele la pastorizia: entrambi offrono a Dio in sacrificio i prodotti del loro lavoro, ma solo le offerte di Abele vengono accettate. La preferenza accordata da Dio ad Abele suscita la gelosia e l'ira di Caino, che porta Abele nei campi e lo uccide. Da qui parte Genesiquattrouno, spettacolo scritto, diretto ed interpretato da Gaetano Bruno e Francesco Villano, in scena al Piccolo Bellini dal 24 al 29 marzo. Abele è già morto e Caino vive tormentato dall’incubo del ricordo. In scena un cerchio, delimitato da quelle offerte mai bruciate per il Signore da Caino, e sopra questo spazio delimitato, un albero al contrario, simbolo della vita, ma anche della pena, del rimorso che incombe ogni volta quel luogo prende vita.
Attraverso un viaggio onirico la storia è raccontata a ritroso, partendo dai giochi dell’infanzia, da quella complicità che lega, che crea fiducia, che permette all'uno di “affidarsi” all’altro, di sentirsi sicuri nei luoghi condivisi, costruiti insieme, nascosti al mondo perché propri, parte della vita stessa.
Con uno straordinario uso del corpo gli attori cominciano il percorso dal cerchio stesso, quasi fosse il luogo della grotta segreta dell’infanzia, all’interno del quale creano azioni sceniche che ricordano la libertà del gioco infantile. E ciò prosegue fino a quando gli stessi attori, usciti dal cerchio “protettivo”, lontani da quelle avventure fanciullesche, cominciano a dialogare in un crescendo fatto di complicità che diventa, però, velocemente invidia, in un dialogo sempre più aspro e tagliente, in cui la parola, con le sue insidie, si sostituisce al corpo, alla sua libertà, dando ampio spazio alla violenza, all’inganno.
Il tutto si trasforma quando il padre avvia i figli alla vita da adulti, perché è proprio li che si insinua il germe dell’astio, e dal momento che Caino brama di distruggere quella vita costruita con Abele, quel rapporto di fiducia che troppo spesso tra gli essere umani viene a mancare senza che la ragione possa comprendere fino in fondo.
Quello che era un rapporto d’amore fraterno, diventa diffidenza, angoscia, paura, morte, e le parole si trasformano in lame affilate, che, lentamente, fanno ripiombare Caino all’interno di quel cerchio. Questa volta però è solo, impaurito, in un luogo che da rifugio si trasforma in gabbia, nel quale l’albero che era vita, diventa orrore che avvolge, incubo ricorrente che insegue l’uomo che non riesce ad accettare ciò che ha compiuto.
“Sono forse io il guardiano di mio fratello?” e ciò che ripete Caino, ed è ciò che ripete l’uomo stesso quando si rifiuta di prendersi cure dell’altro, in un mondo dove sempre meno “ci si guarda”, dove troppo spesso siamo soli in quei cerchi che la vita ci costruisce intorno.
Grandissima prova attoriale da parte dei protagonisti, che riescono anche ad essere pienamente convincenti nella scrittura e nella direzione dello spettacolo.
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