Finale di partita di Samuel Beckett, regia Gabriele Russo
Al Teatro Bellini di Napoli dal 13 al 29 novembre 2025
Servizio di Pino Cotarelli
Napoli – Al teatro Bellini di Napoli è andato in scena una
rischiosa ma originale rilettura di “Finale di partita” di Samuel
Beckett ad opera di Gabriele Russo, in cui l’”assurdo”, tanto
caro a Beckett, emerge dai difficili rapporti umani e dalla routine quotidiana di
una complessa famiglia collocata in un tempo indefinito e ripetitivo, in cui le
vicende si consumano con una staticità estenuante, voluta e scandita da una
sonorità ritmica che sembra quasi contare i secondi che passano inesorabili e tutti
uguali in attesa di un finale impellente e atteso.
In una casa decadente Hamm
(Michele Di Mauro, a suo agio nel ruolo reso in maniera ottimale),
cieco e costretto su di una sedia a rotelle, con le sue esigenze e richieste
esasperanti, che appaiono rituali, continue e prevalentemente uguali, irrita e
spazientisce spesso Clov (Giuseppe Sartori, perfetto nel suo ruolo
da falso zoppo), che non riesce a sottrarsi agli sgarbati comandi di Hamm, probabilmente
per affetto o per abitudine, o forse perché si sente utile e impegnato a fare qualcosa nell’inettitudine generale e pur
criticando e lamentandosi, persiste in un movimento continuo snervante e
servizievole.
Ha un solo desiderio, forse la sua una speranza, lasciare quella
casa, quella gabbia mentale dalla quale, ad ogni tentativo, sembra impossibile
scappare. Ma poi per andare dove? Ogni volta che volge lo sguardo all’esterno,
sollecitato da Hamm a scrutare l’orizzonte con un cannocchiale, vede il nulla, il
vuoto che rimanda lo spettatore ai ricordi dei tanti silenzi vissuti nel
periodo della pandemia. In una vasca da bagno, in un angolo della casa, separati
da una tenda, i vecchi genitori di Hamm, il padre Nagg (Alessio Piazza, ottima resa del
suo personaggio) e la madre Nell (Anna Rita Vitolo, brava nel suo ruolo), forse sono
solo i suoi ricordi che si animano dai ricordi nostalgici e romantici che
rievocano anche la loro fine. Una quotidianità che appare banale, senza senso, tesa
ad una fine prossima che non può sacrificare ogni attimo che rimane, dove Hamm ha
qualche momento di tregua solo quando riposa. Un lavoro che entra facilmente
nelle corde di chi ama l’autore, che ha fatto sentire il suo consenso e non solo nelle poche battute apparse comiche, con risate e applausi, un lavoro però che può
lasciare perplessi difronte alla eccessiva staticità ed al silenzio estenuante.
Ma era l’effetto che si voleva riprodurre in questa particolare rilettura che
ancora una volta riporta l’attualità di questo autore. Interessante anche l’approccio
del regista che anticipa nelle sue note, il valore aggiunto che è rivenuto dalle prove
con l’improvvisazione spontanea, segno della vitalità di questo testo.
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La famiglia resta la zona sismica per eccellenza del
teatro. Da Sofocle in poi, è il terreno dove si consuma la frattura tra il
bisogno d’amore e la necessità di difendersi dall’amore stesso. Nel 2025,
dentro un mondo che sembra aver superato il proprio apice di senso, torno a
Finale di partita partendo da lì: dalla famiglia come ultimo rifugio e,
insieme, ultima prigione. L’intento è quello di liberare Beckett dalla cornice
dell’Assurdo e del “dopo la fine del mondo” per restituirlo a una realtà che ci
appartiene. L’assurdo non è un genere: è una condizione quotidiana. Vive nella
ripetizione dei gesti, nelle abitudini che ci tengono in vita, nella paura di
cambiare posizione, di uscire, di restare soli. L’appartamento di Hamm e Clov è
una casa reale, decadente, impoverita. Le finestre non si aprono più, i
genitori vivono da anni nel bagno – non in un’astrazione scenica, ma in una
vasca che odora di ruggine e di memoria. Tutto ciò che li circonda è vero,
tangibile, ma anche fragile come una memoria che si sbriciola. Il riferimento
al periodo della pandemia resta sottotraccia, non dichiarato. Non serve
nominarlo: è rimasto nel corpo degli attori, nei loro respiri trattenuti, nella
distanza con cui si parlano. La segregazione, la stanchezza, la convivenza forzata
sono esperienze che oggi riconosciamo senza bisogno di metafore. Finale di
partita diventa così una radiografia del nostro tempo: una famiglia chiusa in
una routine che si ripete, incapace di salvarsi e di smettere di provarci. Non
un’allegoria filosofica, ma una storia d’amore e di sopravvivenza. Il dolore,
la dipendenza, la paura, l’ironia: tutto si muove dentro un presente che non
passa mai. La partita è ancora la stessa, ma il finale non è più un concetto
astratto. È la resa quotidiana che ciascuno di noi compie di fronte all’altro,
nel tentativo – disperato e tenerissimo – di restare vivi.
Gabriele Russo
QUADERNI DI REGIA Dentro le prove di Finale di partita
Quando si affrontano le prove di uno spettacolo ci sono,
in fondo, due possibilità. La prima è arrivare in sala con un’idea già
definita, una mappa precisa di ciò che lo spettacolo dovrà essere: ritmo, tono,
visione. La seconda, più rischiosa ma anche più fertile, è usare le prove come
terreno di scoperta, come attraversamento del testo insieme agli attori,
lasciando che il senso emerga dal lavoro, dal corpo, dall’ascolto reciproco.
Nel caso di Finale di partita, non potevo che scegliere la seconda
via. Beckett non si lascia “illustrare”: le sue parole, così esatte e
cristalline, nascondono altre possibilità, più sottili, invisibili a una prima
lettura ma profondamente radicate nel testo. Solo attraversandole in prova,
scavando nelle pause e nei silenzi, si può forse intravedere la vita che pulsa
sotto la superficie perfettamente costruita del suo linguaggio. Mettere in
scena oggi Finale di partita significava prima di tutto
chiedersi perché farlo. Non per rendere omaggio a un classico,
ma per capire che cosa quel classico possa ancora dirci. Un testo diventa
davvero “classico” quando non smette di mutare nel tempo, quando permette al
presente di rispecchiarsi in esso. Ogni nuova messinscena è un tentativo di
interrogare quella materia viva, di farla rispondere al nostro tempo. Le prove
sono state difficili, nel senso migliore del termine. Abbiamo scelto una strada
che rompesse con il ritmo musicale canonico del testo beckettiano, cercando
invece un battito interiore, emotivo, relazionale. L’assurdo, in questa lettura,
non nasce dalla forma della scrittura ma dalla verità dei rapporti umani: dalla
dipendenza, dal potere, dall’amore che distrugge. La casa in cui si svolge
l’azione è verosimile; le relazioni lo sono ancora di più. Assurde, tossiche,
dolorosamente reali — come sanno essere i conflitti generazionali e affettivi.
È la fine di tutto: della vita, del linguaggio, della possibilità stessa di
comunicare. Si parla tanto, ma per arrivare a dire che non ci sono più parole.
Con gli attori abbiamo lavorato sull’ascolto e sulla reazione, su un ritmo non
rassicurante, non teatrale in senso classico. Abbiamo cercato la teatralità
nella verità della vita e la vita nella finzione della scena. Ci siamo concessi
il rischio, ogni giorno, di non sapere esattamente dove saremmo arrivati,
lasciando che il testo reagisse a noi e noi al testo. Il nostro intento non era
“beckettizzare” Beckett, ma liberarlo dal cliché che lo imprigiona. Per
rispetto, non per distanza. Guardato con uno sguardo meno canonico, Beckett
rivela spazi di libertà immensi, possibilità molteplici che nessuna
interpretazione definitiva può esaurire. Nulla, nel suo teatro, può essere
rappresentato come omaggio: va attraversato, vissuto, contraddetto. Abbiamo
provato, riprovato, scavato in ogni battuta, accettando che la scena restasse
fragile, esposta, diversa ogni sera. Finale di partita non è
uno spettacolo da chiudere, ma da tenere aperto: una struttura in bilico,
pronta a trasformarsi. Forse è proprio lì, in quella fragilità viva, che si
nasconde ancora oggi la sua verità.
FINALE DI PARTITA di Samuel Beckett
traduzione Carlo Fruttero
regia Gabriele Russo
con Michele Di Mauro, Giuseppe Sartori, Alessio Piazza,
Anna Rita Vitolo
scene Roberto Crea
costumi Enzo Pirozzi
disegno luci Roberto Crea e Giuseppe Di Lorenzo
musiche e progetto sonoro Antonio Della Ragione
costumi Enzo Pirozzi
disegno luci Roberto Crea e Giuseppe Di Lorenzo
musiche e progetto sonoro Antonio Della Ragione
produzione Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo
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