Al Teatro Politeama Pratese - Via G. Garibaldi 33/35, PRATO – il 14 alle
ore 21 e il 15 alle ore 21 marzo 2023.
Servizio di Cinzia Capristo
Al Politeama di Prato è andata in scena una commedia
dello scrittore, sceneggiatore Francesco Piccolo. Il sipario si apre e una
scena di altri tempi appare allo spettatore, una scenografia che ricorda gli
anni in cui questa storia ha inizio: gli anni Sessanta/settanta.
Sullo sfondo un’ambientazione con grafica a mattoncini
che ricorda le case degli operai e per la sua maestosità, le fabbriche dell’epoca.
Tre aperture e due finestre a destra e due aperture a sinistra; in fondo, in
una nicchia, due chitarristi; sulla scena sono presenti un divano, tubi
catodici sparsi, che si accendono e si spengono a seconda le circostanze, sedie
e libri; su uno scaffale a destra ancora libri, a sinistra un ripiano con un registratore
retrò per ascoltare musica, inoltre due piccole casette che si illuminano durante
il racconto, a rappresentare il trasferimento di città e di casa del protagonista.
Claudio Bisio appare sulla scena mentre suona un piccolo pianoforte, accompagnato
dai due chitarristi Marco Bianchi e Pietro Guarracino. Una perfetta direzione del
regista Giorgio Gallione che ha curato tutti i minimi particolari, frutto anche
del legame professionale intercorso, negli anni, con Bisio. In questo scenario
e con questo modus operandi, ha inizio il monologo, in un solo atto, di Bisio,
che ripercorre la vita del nostro protagonista, scandita da nomi di donne che
hanno accompagnato la sua vita sentimentale e di crescita professionale: Gabriella,
Elena, Sara, sono alcuni nomi, fino all’arrivo della ragazza giusta che gli
regalerà due figli.

La commedia non è altro che un compendio dei lavori di
Piccolo nei quali ha cercato di esplorare, nel corso degli anni, partendo da
esperienze personali, gli stati d’animo dell’essere umano: dalla felicità
all’infelicità, al desiderio di essere uguale agli altri, appartenere e
riconoscersi in una comunità attraverso simboli identitari che danno il sentore
di appartenere ad un tutto. La storia narra appunto di questa identità
collettiva, un “Sé altro” che diventa “IO”, diventa Bisio. Bisio e Piccolo sono
accomunati dallo stesso periodo storico, entrambi sono stati bambini, ragazzi,
e poi adulti negli stessi anni, per cui raccontano una Italia, a futura
memoria, che gli è appartenuta e che appartiene a tutti coloro che sono vissuti
in quegli anni, ma che non esiste più. Una società che agli occhi delle nuove
generazioni, appare lontana secoli, eppure è trascorso soltanto un
cinquantennio. Oggi nella società liquida in cui viviamo, tutto scorre
rapidamente, amori, notizie, guerre, dolori, tutto accade e tutto si dissolve.
I telefonini rendono la comunicazione veloce, le notizie sono date in tempo
reale. Al contrario, la società che racconta Bisio, è cadenzata da notizie dal
ritmo lento, notizie riportate da un tubo catodico ampiamente rappresentato sul
palco, a ricordare un’epoca passata fatta di valori ancestrali, di lotte
politiche e di amori rincorsi. Come diceva Gabriel Garsía Márquez: “La vita non è quella
che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.

Dall’alto, durante la narrazione scendono oggetti a
corollario di una sceneggiatura ben ideata; si parte con i libri, mentre Bisio
inizia il racconto di un amore fanciullesco dove associa il mal d’amore con la
sensazione di un vuoto legato alla fame. Il ricordo di un bambino invisibile
inizia a riaffiorare con il Carosello che ha accompagnato la fanciullezza del
protagonista e la sigla di Canzonissima del 1969 cantata dalle gemelle Kessler dal
titolo: “Quelli belli come noi” dove lo slogan era: “i belli sono
tanti… e chi non sa cantare più brutto diventerà”, anche qui l’appartenere
ad una maggioranza fa la differenza, così come dice lo stesso Bisio: la vita è come
un elastico che oscilla tra omologazione e individualità.

Il ricordo, ormai adulto del nostro personaggio, riaffiora
e associa involontariamente avvenimenti passati con persone e cose che
apparentemente non sembrano avere nulla in comune. Una canzone “Fatti
mandare dalla Mamma a prendere il latte” di Gianni Morandi scatena ricordi
a cascata e così via. Bisio, narratore avvincente e vivacissimo, parla di un
anno in particolare: il 1974, e dall’alto scendono paralumi illuminati a segnalare
due eventi ad imperitura memoria: il primo, quando il nostro protagonista
diventa comunista, si affianca a Enrico Berlinguer, ma viene bistrattato dal
padre che gli chiedeva cosa fosse questo comunismo, ma anche dai compagni di
lotta che non lo ritenevano all’altezza della situazione, lui che girava con il
Montgomery con gli alamari e col motorino; il secondo evento, i
Mondiali del ’74, vinti dalla Germania Ovest, un grande Bisio racconta, nei
dettagli, la delicata partita disputata fra Germania-Est e Germana-Ovest, facendola
rivivere nelle sue tante sfumature.
Si racconta anche di un San Valentino tutto rosa, con un
pupazzo gigante, Snoopy, avvolto in una carta rosa, mentre dall’alto scendono
delle sedie, i due chitarristi suonano una melodia romantica che tocca il cuore.
Sono gli anni del liceo e di un nuovo amore: Elena, che non accetta che in un
momento di contestazione si possa essere sentimentali e festeggiare una ricorrenza
simile. Tutto ciò per evidenziare quanto nella vita di ognuno di noi sia
difficile trovare il momento adatto per coniugare sentimenti e crescita personale.

La narrazione di Bisio con un sarcasmo mordace si dipana
tra condizionamenti che la famiglia d’origine inculca in tutti noi e che
fatichiamo a liberarcene se non quando ci confrontiamo con gli altri; al venir
meno delle certezze, ai consigli ancestrali dei nonni, delle madri, dei padri,
dei muri alzati in famiglia e dei muri ideologici che in quel periodo di
contestazione emergono fino ad arrivare alla caduta stessa dei muri, negli anni
Novanta. Infatti, cade il muro di Berlino e con esso tutta una serie di
certezze. Si prende coscienza di una epoca che non c’è più, di come eravamo. Si
rischia allo stesso modo, ma si prende coscienza della difficile scelta tra chi
si è e chi vorremmo essere. I nuovi modelli emergono e contrastano con ciò che
si è. Il bagaglio culturale costruito negli anni partendo da Bertolt Brecht
impedisce di avvicinarsi ad una società con modelli superficiali ed a una televisione
ormai commerciale. Il protagonista adulto e con una carriera costruita deve
barcamenarsi tra lavoro e problemi legati alla famiglia. I tempi cambiano, ma
il gap generazionale tra padri e figli resta, e lui, ormai genitore, deve
rapportarsi con una nuova generazione; mentre si narra di questo legame dall’alto
della scena calano piante tropicali per un viaggio fatto in Perù dalla figlia.
Le musiche di Paolo Silvestri hanno toccato le corde del
cuore e dei ricordi; due splendidi e valenti chitarristi: Marco Bianchi e
Pietro Guarracino, hanno valorizzato sia la scenografa di Guido Fiorato, sia il
testo di Piccolo, sia la performance di Bisio rendendo unico questo spettacolo.
È vero come dice Bisio che le parole sono importanti e in questo lavoro le
parole sono state ben calibrate, ma è anche vero raccontando di amori vissuti
come dice Vincenzo Cerami: “le parole nell’amore non contano, conta la musica”,
la nostra intera vita sentimentale è costellata dalla musica. Bello l’effetto
delle luci sul palco di Aldo Mantovani e i vari oggetti che si illuminavano
durante il racconto.
L’ars oratoria di Bisio ha incantato il pubblico grazie
alla sua abilità dialettica che gli ha permesso di argomentare in modo serrato,
acuto e satirico gli argomenti trattati; non sono mancati momenti dove ha
interloquito col pubblico rendendo lo spettacolo piacevole e leggero.
Guardando Bisio muoversi sul palco viene alla mente una
canzone di Charles Aznavour che recita: “Io sono un Istrione, ma la teatralità
scorre dentro di me, quattro tavole in croce e qualche spettatore, chi sono lo
vedrai, lo vedrai”, ed il pubblico ha visto, ha visto un grande Istrione.
Testo di Francesco
Piccolo
Regia di Giorgio Gallione
Musicisti: Marco Bianchi e Pietro Guarracino
Musiche: di Paolo Silvestri
Scene e Costumi di Guido Fiorato
Luci di Aldo Mantovani
Produzione Teatro Nazionale di Genova
Foto di Silvia Tondelli
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