Prima di Pompei: incontro con Aimos Gitai e il suo Golem

Presso il Ridotto del Mercadante, martedì 17 giugno

Servizio di Rita Felerico

Il 20 giugno ad inaugurare la rassegna di Pompeii Theatrum Mundi 2025 sarà il regista israeliano Amos Gitai con Golem, uno spettacolo che vedrà sul palcoscenico una compagnia di attori, cantanti, musicisti cosmopolita, di lingua, tradizioni culturali e sociali diverse che reciteranno in tedesco, inglese, arabo, spagnolo, francese, russo, ebraico, yiddish.  Sottotitolato in italiano Golem – leggendaria creatura di argilla creata per proteggere la comunità ebraica dalle persecuzioni – vestirà gli abiti di un personaggio frutto di una proiezione inconscia del suo creatore, ma al tempo stesso reale, in grado, in una atmosfera di magia che abbraccia la cabala e le combinazioni matematiche, di riunire in un tempo unico, quello del presente, storia passata e futura.

Nell’incontro con Amos, interessante di spunti, svoltosi ieri presso il Ridotto del Teatro Nazionale, insieme a Roberto Andò ed alla stampa, la mia attenzione si è concentrata su due temi che il regista ha nel suo dialogo chiarito: il tema della lingua e il tema della condivisione e del dialogo fra diversità, reso possibile attraverso l’esperienza teatrale.

Per il regista – architetto mancato ma di raffinata formazione, il padre Munio Weinraub era stato uno degli architetti della Bauhaus – educato ad una libera espressione critica anche dalla madre, Efratia Margalit, docente di teologia ebraica e studiosa di psicoanalisi, il cinema è stato per circa quaranta anni il suo linguaggio d’arte– ispirato da Rossellini, Godard - per esprimere la complessità dell’esistenza e degli scenari geopolitici. Amos ritiene il teatro, in questo presente, la forma più vicina a descrivere i vuoti, le incertezze, le fragilità, gli ossimori, il buio e gli spiragli di luce della contemporaneità, la forma più congeniale ed immediata per aprire ed allacciare dialoghi.

Ecco allora la mia attenzione sui temi prima esposti; il teatro rende possibile la creazione di una lingua nuova, comune, identitaria di responsabilità civili ed etiche, che sono e devono essere di tutti, senza diversità che tengano, così come richiede qualsiasi partitura d’arte. Belle, infatti, le sue riflessioni sull’yiddish che riportano a questa idea di lingua; l’yiddish è una lingua che non possiede parole relative ad armi, munizioni, esercizio e pratica militare...non esige, non comanda, non domina….è una lingua di umanità piena di timore e speranza… è la lingua di mia madre.

Il teatro è il luogo dove poter realizzare questo spazio di dialogo, l’esercizio teatrale richiede rispetto dell’altro, ascolto, pazienza di memoria e di azione, è il luogo dove è possibile l’incontro.

Non evadendo a domande relative alla sua posizione su Israele e il conflitto palestinese, Gitai ha fatto cenno alle guerre sparse per il pianeta e questo spettacolo vuole – dice – creare ponti di unione ed affermare che questo è possibile se si vuole.

Molti i paralleli fra la realtà napoletana già conosciuta– nel 1993 ha girato il documentario Nel nome del Duce sulla campagna elettorale di Alessandra Mussolini e nel 2016 ha firmato per il San Carlo Otello di Rossini – e la sua Haifa, dove e nato nel 1950, e il suo Paese, due realtà che con gioiosa ironia definisce schizofreniche.

Appuntamento al 20, allora, nella magica, affascinante atmosfera di Pompei, per sentire Golem camminare nella cavea di uno dei parchi archeologici più belli del mondo e ancor di più per vedere realizzato quell’incontro di culture e di linguaggi, unico strumento di salvezza per sopravvivere alla violenza e alla ferocia.

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